E allora io ho provato a disegnare la Senna per emulare i grandi maestri, guardando il Reno ho pensato che nascondesse un segreto, ho visto il Tago stringere Toledo e il Danubio divorare il cielo: emozionante. Confesso di aver dipinto e ridipinto questi miracoli viventi, ma confesso anche che ne è uscito sempre e solo lo stesso fiume. Presuntuoso e caparbio continuo il mio folle quadro di cui ho imparato a condividere pure gli umori al fine di cavarne l’anima. Enzo Maio, da una lettera del 25/10/2000
Nei quadri di questo ciclo di Enzo Maio c’è il giro di condizione umana e poetica: tra luogo prossimo e remoto, tra epifanie e infiniti congedi. La realtà che sfugge, che lividamente si svuota, si ritrova qui nel gesto dell’opera dipinta: dall’albore al tramonto, dai rosa ai blu, dall’assenza dei grigi alla vertigine dei gialli. C’è l’idea di viaggio come proteso a un primordio o alla fine, in un continuo atto vivente.
Nell’accostamento diretto ai quadri due polarità potrebbero essere esemplificate: alcuni dipinti in rosso inglese (come mi dice Maio) e dipinti in grigio. Nei quadri in rosso (in una lontana memoria di Turner) c’è un più radicale disancoramento verso uno spazio di sconfinata tensione. Nei bellissimi grigi di Maio si traduce una sorta elegia senza oggetto. Sono grigi che, nell’accento psicologico, ci richiamano opere di Nicolas de Staël (Le foglie morte, I tetti di Parigi, I gabbiani) dove c’è lo strazio della vita che non parte; o in un accostamento più vicino ci ricordano una certa pittura di Ajmone intrisa di morbida luce, di quotidiano mistero.
E’ stata dedicata recentemente, a Brescia, a cura di Marco Goldin, una mostra sulla storia del paesaggio moderno in Europa (da Turner, a Monet, a Cézanne). La totalità infranta del Novecento, la muta estranea esistenza delle cose possono al tempo stesso liberare la consistenza di uno “sguardo” che riesce ad attraversare il vuoto della parola e dell’immagine.
Davanti a questi quadri di Maio ci viene infine in soccorso un testo poetico dello scrittore austriaco Peter Handke nella suggestione del titolo “Canto della durata” (in traduzione Einaudi). Nell’ immensa deriva dei segni linguistici, la durata è ritrovare la grazia, il suono, il ritmo senza parole: ritrovare l’immagine, non statica ma sempre nuova, del proprio divenire.
stralcio dalla presentazione a catalogo di Stefano Crespi